Altre storie. Di un evaso e del rap.

“Hey baby come va
Non è che comunichiamo molto
Non so nemmeno la tua età
Ma è strano
E’ come se scrivessi un testo adesso
Dico che spacca ma non so neanche come fa…”

Non so’ neanche le sette e questi ricominciano col rap. Io non ce la faccio. Non ce la faccio a passare la giornata co sta musica. È tutta uguale, non la sopporto. Io la mia pena la sto già scontando qua dentro. Questa è una pena aggiuntiva che io non mi sono meritato.
“Si può abbassare un po’ il volume, per cortesia?”
“Non rompere il cazzo dalla mattina presto, è chiaro?”
Siamo in nove in questa cella. Nove. Tre letti a castello, una finestra e un cesso. La cucina, dentro il cesso.
Lo stereo, sotto la finestra.
Sempre acceso, dalla mattina alla sera. Non lo spengono mai sti stronzi, neanche quando si esce per l’ora d’aria. Lo fanno apposta, lo fanno. Lo sanno che a me il rap fa schifo. Lo sanno. E proprio perché mi fa schifo, lo tengono sempre a palla. Certe mattine mi piazzano lo stereo all’orecchio a tutto volume. Bastardi! Io li mando in culo e loro si divertono. Vogliono farmi impazzire, vogliono. Vogliono vedere fino a che punto resisto. Capirai, otto contro uno. E mica ci voglio morire io qua dentro. Ma neanche diventare pazzo. Due anni, quattro mesi e 16 giorni ci devo passare. E so’ 5 mesi e dodici giorni che oltre alla pena mi tocca affrontare il rap, da quando è arrivato Gaetano, detto “Il Perfezionista”. Un ammasso di muscoli e tatuaggi. Pure in testa è tatuato. Ci tiene una tigre con la bocca aperta. Ce l’ha sopra la nuca, gli piglia tutto il retro della capoccia. Fa schifo, come la musica che ci impone. Oh, poi, io sono l’unico qua dentro che glielo dice di smettere, anche se non mi sente, anche se alza il volume. Tutti gli altri stanno in ginocchio. Siamo sei italiani e tre stranieri; un marocchino, un albanese e un romeno.
Gli stranieri non parlano con nessuno, neanche tra di loro. Noi italiani parliamo sempre, a volte tutti insieme. Ce n’è uno che strilla pure per chiedere scusa. Il Perfezionista no, lui sussurra. E quando parla lui, è l’unico momento che tutti si stanno zitti. A parte quel cazzo di stereo che prima o poi lo scaravento per terra.”Penso a come finita
Penso a come e iniziata
Abbiamo fatto parecchia strada
Con gli occhi bendati
E i cuori blindati
Alla guida dei carri armati…”
Ma senti che cazzata! Senti che cazzata!
Certe canzoni poi, si reggono ancora meno di altre. Soprattutto quando le tieni nell’orecchio dalla mattina alla sera. Sono come i tarli. Ti bucano i pensieri. Stai lì a cercare di rimuoverle e quelle ti si appiccicano al cervello e pure quando è tutto spento e provi a prendere sonno, fluttuano nella materia grigia; si ripropongono come i peperoni sullo stomaco. Le scacci ma nello stesso tempo le canti. Un meccanismo diabolico che allontana il sonno e fomenta i nervi, la cattiveria.
Io il Perfezionista l’accìo. Io prima o poi mi comprometto per sempre. Prima gli salto con tutti i due piedi su quello stereo del cazzo e poi gli metto le mani in faccia. Gliela piglio come un cocomero e gliela faccio girare fino a guardare la tigre negli occhi. Che si pensa che mi manca il coraggio. Sto pezzo di merda. E mò suona sta fava.
“Vivo in un paese che ormai sfrutta l’ignoranza
C’è chi è ricco e se ne scappa ma prima riempie la panza
Sarebbe interessante se riuscissi a farlo anch’io
Imbottirmi di contanti poi scappare verso Rio…”
Ah questa è nuova, ancora non ci aveva onorato di cotanta poesia. Io me ne vado. Devo scappare o l’ammazzo. In un caso o nell’altro mi libero di lui. Se scappo, anche se mi ripigliano, in cella col Perfezionista non mi ci rimettono. Se l’ammazzo mi libero io ma si liberano anche gli altri. Ma poi io finisco molto male mentre gli altri sette, gli inginocchiati, i vigliacconi, si sono liberati del rap e del suo antagonista in un colpo solo. No, non gliela dò sta soddisfazione. Io da qua me ne devo andare.
Da questi sassi, solo due carcerati sono riusciti ad evadere. In vent’anni. Io sarò il terzo. Evaso perché incompatibile col rap. Vallo a spiegare al giudice quado la polizia ti riacchiappa.
“Signor giudice, si sono pentito, ma non potevo resistere, mi creda. Ho chiesto al Signor Direttore di spostarmi di cella ma lui per tutta risposta si è fatto un risatone. Provi lei a convivere giorno e notte con quella specie di musica. Il giorno nelle orecchie e la notte nella testa. E’ un tormento insopportabile. A lei piace la musica rap, Signor Giudice? Ha mai ascoltato quei lamenti in rima? E i testi li ha riflettuti? Signor Giudice io sarai rimasto in carcere serenamente a scontare la mia pena. Figuriamoci, stavo persino frequentando un corso da ceramista in carcere ché magari, scontata la pena, mi mettevo pure a fare l’artigiano. Ero convinto a recuperarmi in tutti i modi ma il rap mi ha annebbiato i propositi.
“C’è chi arriva e chi se ne va’
C’è chi aspetta paziente qualcosa che forse mai arriverà.
Io ero uno di quelli, uno di quelli fatti male
Testardi come pochi deciso come nessun’altro
Mai fatto nulla per impressionare gli altri
Ma per superare me stesso mettersi in gioco
Mai seguire il gregge e fanculo a tutti quanti io vado in contro senso !!”
Senti quest’altro. Mo basta. Ora scappo. Scappo oggi, anche se piove. Tanto usciamo in pochi co sta pioggia e quando siamo pochi le guardie non ci cagano per niente. I compagni restano dentro e pure il Perfezionista. A sentire il rap e a fare i muscoli. Salto il primo muro e poi la recinzione. Certo, sono tre metri impreziositi con del bel filo spinato arrugginito e se cado male mi rompo una gamba, come minimo. Magari rimango pure paralizzato. Ma almeno lontano dallo stereo. Un mese di ospedale e poi una bella cella solo soletto, in isolamento. Tanto non mi viene mai a trovare nessuno. Anche perché mio padre e mia madre sono morti; fratelli non ne ho. Con i cugini non parlo da quando, a tredici anni, gli ho fregato il motorino. Hai voglia a spiegarli che dovevo scappare a portare le medicine a mamma. Gliel’avrei pure riportato, se nel frattempo non mi avessero fermato, per pestarmi, quelle bestie del muretto. Mica è colpa mia se poi, uno di loro, il motorino se l’è portato via. Mi toccò perfino dormire fuori il portone di casa che mio padre stava talmente ubriaco che non si accorse neanche che il figlio non era rientrato. E meno male, che se mi vedeva rientrare in quello stato, pestato come una pera matura, con un occhio chiuso tutto viola, finiva di darmi il resto.
Si, oggi scappo. E’ arrivato il momento. Vado. Ora.
Salto il muro e la recinzione. Piove a dirotto. Nessuno sembra accorgersi di me. Non ci posso neanche credere. Non sento niente, neanche la paura. Sono agile e veloce. In un attimo sono sulla tettoia dell’ingresso dei visitatori. Non c’è nessuno, oggi non c’è orario di visita. Salto giù. Sono per strada. Corro, corro, corro a più non posso. Attraverso strade, quartieri, isolati. Corro sotto la pioggia e mi sento libero, leggero. Negli orecchi ho solo il rumore dei miei passi che solcano l’asfalto bagnato. E’ questa, la musica.
“Hai bisogno di qualcosa? Da quant’è che non mangi?”
“No, non mi serve niente. Ovvero mi serve tutto.”
“Tieni e va via di qui che prima o poi qualcuno andrà a lamentarsi dalla polizia. Non lo so chi sei, ma hai una bella faccia. E sicuro un cuore.”
Mi mette in mano cento euro, dico cento euro. E sparisce nel nulla.
Anch’io mi allontano. Allora, con questi soldi vado ai grandi magazzini e mi compro un vestito decente e poi cerco un lavoro in nero, magari ai mercati generali, così almeno provo a mangiare tutti i giorni, va bene anche una volta sola, e magari mi avanzano i soldi per comprare un paio di rasoi usa e getta e comprare un bagno schiuma, magari riesco anche a farmi la doccia ai bagni pubblici. Magari.
“Sono venticinque euro. Per oggi basta così. Ci vediamo domani”
“Grazie. A domani.”
Beh ora mi vado a fare una doccia e poi magari, magari mi compro un giornale. O forse un libro. Un libro, si, meglio. Poi vado al parco e passo una bella giornata a leggere. Al campo ci torno stasera tardi. Non mi sento sicuro lì dentro. Va bene che sono tutti avanzi di galera ma le guardie li conoscono tutti, uno per uno. Ed io sono nuovo e non ho documenti. E poi sono ricercato. Va bene, al campo lo sanno e mi proteggono finché possono; ma metti che arrivano le guardie e non fanno in tempo ad avvisarmi ed io non posso scappare?
In galera. Tanto prima o poi ci ritorno. T’immagini mi rimettono in cella col Perfezionista. Sarà la volta buona che lo faccio secco.
Oh, questo mi ispira: ”Cent’anni di solitudine”, Gabriel Garcia Màrquez. Un bel librone, ci metterò un po’a leggerlo.
“Va bene questa edizione o preferisce quella economica’”.
“Che differenza c’è, mi scusi?”
“Beh, questa è più prestigiosa; la copertina è rigida, le pagine sono più spesse…”
“Il contenuto è lo stesso o sono meno capitoli, visto che è più economica?”
“Assolutamente identico.”
“Allora prendo quella economica. Grazie.”
«Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.»
Ahh, senti che poesia e che descrizione. Non c’è neanche una rima. Sono poco più di quattrocento pagine, lo devo finire in una settimana. Madonna che fame! Che ora si sarà fatta? Dev’essere tardissimo, sono a pagina 214!
“Salve!”
“Ha bisogno di aiuto?”
“No, grazie, faccio da solo. La volta scorsa è andata di lusso. Ho preso un libro bellissimo. M’è piaciuto il titolo, anche se pensavo che parlasse di tutt’altra cosa.”
“Lei era quello di Màrquez, vero?”
“Si, se lo ricorda!”
“Certo che me lo ricordo. Non è di queste parti, vero? Non l’avevo mai vista!”
“No, non sono di qua. Beh, io, io cerco un altro libro, eh, che quello l’ho fatto fuori in due giorni.”
Questo mi piace, bel titolo “Aspetta primavera Bandini”. Lo prendo e prendo anche questo, “On the Road” e quest’altro “Colazione da Tiffany”.
“Prendo questi tre. Spero di farci una settimana!”
“Grazie, a presto. Venga pure quando vuole, anche solo a vedere le novità o a farsi una chiacchiera.”
Mi piace la libreria. Mi sento a casa, anche se i libri non li ho mai avuti a casa e ad appassionarmi alla lettura, ho iniziato in carcere. Solo che, mentre in cella leggevo per ingannare il tempo, ora leggo perché mi piace. Mi piace davvero. Una parola tira l’altra. Le storie, sono tutte bellissime. E poi io mi immedesimo. Mi capita soprattutto con i racconti di Camilleri; quando li leggo, nel cervello imposto il siciliano ed è come se sentissi la mia voce che legge in dialetto. E’ incredibile, non me ne capacito. L’unico problema è che io una casa non ce l’ho e allora i libri, una volta letti, per non lasciarli in giro, li porto al supermercato, dove li raccolgono per darli a chi non ha i soldi per comprarseli. Io penso che sia giusto regalarli. Penso che tutti debbano poter leggere certi romanzi e non debbano aspettare quando sono grandi per farlo, devono farlo da ragazzi, da piccoli. E così un genitore che non tiene gli occhi per piangere, magari passa davanti alla libreria dei libri gratis e ne prende uno per il figlio, anche solo perché tanto è regalato. Poi magari quel libro gli parla a quel figlio. E quello comincia a leggere. E poi non ne può più fare a meno.
Perché, a me, per esempio, i libri mi chiamano. Fanno a gara a chi si fa sentire per primo e sceglierne uno, piuttosto che un altro, mi mette in crisi, mi mette, tant’è che certe volte me ne porto via pure tre. E poi li annuso. Madonna quanto mi piace l’odore dei libri mai sfogliati. Quando non mi vede nessuno, ficco il naso tra le pagine e aspiro forte forte. Poi richiudo e metto a posto.
“Mi scusi?”
Con chi ce l’ha questo?
“Mi scusi?”
“Dice a me?”
“Dico a lei, dico. Mi fornisca i documenti, per cortesia.”
“Eh, io i documenti ora non ce li ho dietro. Li ho lasciati a casa.”
“Dove abita?”
“Eh, qui vicino. Se mi aspetta, li vado a prendere e glieli porto subito.”
“Facciamo così. L’accompagno io a prendere i documenti. Anche perché temo che i suoi documenti siano altrove. E per arrivarci ci vuole la macchina, quella con la sirena sopra.”
“Senta, io ora non oppongo resistenza, ma lei, per cortesia, mi faccia comprare dei libri. In tasca ho tanti soldi che mi sono messo da parte e chissà quando la rivedrò più una libreria.”
“Faccia pure, ma si sbrighi.”
Cazzo, m’hanno beccato. Con trecento euro mi compro un sacco di storie. Tanto, di tempo ne avrò da vendere.
“Ma dove va con tutti questi libri, è impazzito? Mica finisce in una suite!”
“Senta, ora lei che è così gentile, mi aiuta a prendere tutti questi libri e a condurli in carcere insieme a me. Poi, libro per libro, mi fa la cortesia di andare a riempire quella libreria che sta al supermercato, dove chi non può comprarseli, i libri se li porta a casa gratis. Così la cella piano piano si svuota e i ragazzini piano piano si abituano a leggere, ché io sono sicuro che questi libri qua, vanno a ruba!”
“Lei è sicuro di voler passare tutto il suo tempo a leggere? Non le basterà l’ergastolo per finirsi tutti questi libri!”
“Ma perché l’ergastolo? Mi rimettete in cella con Il Professionista?”
“Come, scusi?”
“Niente, niente, era una battuta. Il rap, lo ascolta?”

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