A poche ore dall’intervento, era talmente gonfio che non poteva neanche più indossare il pigiama. Il suo corpo raccoglieva acqua. Una grossa, enorme damigiana. La testa aveva mantenuto le stesse dimensioni ma il resto era deforme. Le braccia, il torace, le gambe, i piedi. Era come se qualcuno lo avesse gonfiato con la pompa della bicicletta. Persino le dita delle mani erano irriconoscibili. Sembrava obeso, ecco cosa sembrava. Lui che era così esile di suo e oramai consumato dalla malattia, aveva assunto le sembianze dell’uomo più grasso del mondo.
“La massa tumorale innestata nella vena cava del polmone gli impedisce il ritorno venoso. Sicché si riempie di liquidi e non li smaltisce finché non andiamo ad intervenire sul male, baipassando la vena. L’intervento è l’unica via di scampo che gli è rimasta. Devo essere onesto con voi, è la prima volta che opero sulla vena cava. Ma sono fiducioso al punto tale che registreremo tutto l’intervento e ne faremo un caso di studio che sottoporremo all’attenzione dei colleghi americani.”
Che speranze ha di sopravvivere senza intervento? Nessuna. Può sperare di dileguarsi dalla finestra come un palloncino, in silenzio. Poi magari si aggancia allo spino di una rosa e si buca e tutta quell’acqua esce dal buchino e lui torna normale. Può sperare. Ma lui preferisce essere operato anzi non vede l’ora e smania e davvero non ce la fa più in quelle condizioni; si fida del chirurgo, ciecamente. Tanto, peggio di così, non può andare.
Il giorno dell’intervento, lascio i bimbi all’asilo e vado a lavoro, come fosse un giorno normale. Ma non lo è. È un giorno che in un verso o nell’altro, mi si appiccicherà addosso come il catrame.
Indosso la sua cravatta per averlo ancora più addosso, quella blu con i pois bianchi. Ostento serenità e fiducia ma ogni mezz’ora chiamo mia madre per avere sue notizie.
È dentro da un’ora. È dentro da due ore e mezza. È dentro da cinque ore. L’intervento è delicatissimo ma sta andando tutto bene. Ha avuto una piccola crisi ma lo hanno recuperato. È dentro da sette ore. È dentro da nove ore.
È uscito. È vivo.
Ora lo portano in rianimazione dove resterà per qualche giorno. Di vederlo, neanche la speranza. Sta reagendo bene ma ha bisogno di riposo, devono passare almeno 72 ore.
Quando mi dicono che posso vederlo, ecco io non sto più nella pelle. Mi portano in una stanza prima della rianimazione e mi fanno indossare indumenti sterili, la mascherina, i copri scarpe e la cuffia. Poi mi fanno lavare le mani con il betadine chirurgico e mi fanno mettere i guanti. Il cuore mi batte talmente forte che me lo sento persino nelle scarpe.
“Tuo padre è nel secondo scompartimento. Vacci piano con le emozioni.”
Entro in punta di piedi. Sono tutte piccole celle fatte di separè ed ognuna custodisce una vita aggrappata a tubi e monitor e sacche e flebo.
Papà ha le spalle scoperte e le braccia fuori dal lenzuolo. Gli si sono sgonfiate fino al gomito sicché l’avambraccio è normale mentre la parte superiore deve ancora rimpicciolirsi.
Avvolto in un groviglio di tubi azzurri, sta riposando. Sembra sollevato.
Poi si sveglia e mi fissa, muto.
Mi riconosce. Riconosce i miei occhi, dietro la bardatura sterile.
“Papà!” Riesco a dire solo quello, poi scoppio a piangere e pure lui ed è tutto così fottutamente bello che niente, arriva subito il medico di guardia ai monitor convinto che a mio padre sia venuto un infarto.
“Oh, t’ho detto vacci piano con le emozioni! M’hai fatto prende uno spavento. A un certo punto il cuore ha disegnato una montagna, ho pensato che cazzo sta a succede?!”
Che cazzo sta a succede te lo dico io. È questo il momento più intenso più profondo più…non trovo le parole, tra me e mio padre. E ci voleva questo cazzo di tumore per regalarmi il privilegio di vederlo vivere due volte. E tu non mi puoi interrompere sul più bello perché io ti prendo a calci nelle palle.
“Ok, vi lascio soli altri cinque minuti. Ma vacci piano.”
Non ci siamo detti quasi nulla. Non c’è stato bisogno.
Mi ha giusto chiesto dei bimbi.
Ci siamo sempre guardati e tenuti la mano e sorrisi, dietro le lacrime.
E la forza di quel contatto, ecco quella forza ancora oggi, ad oltre sei anni e mezzo dalla sua morte, non vuole sbiadire, dolce compagna di questo gioco tanto crudele quanto irresistibile che è la vita.
